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Parashà Chukkat – L’arte e il potere della parola
In questa parashà il popolo di Israele continua a vivere nel deserto sperimentando diverse crisi che dimostrano che se non si supera mentalmente la condizione di schiavo non si può divenire liberi.
Ad un certo punto viene a mancare l’acqua e le persone e gli armenti soffrono la sete. In questo specifico momento appare, come per altre volte, il fantasma del passato: “E perché ci hai fatto uscire dall’Egitto, per portarci in questo luogo che non è un luogo ricco di fichi, vite e melograno e dove non c’è acqua da bere.” Alla presenza di una difficoltà il popolo dimentica nuovamente che in Egitto il cibo non era assicurato, dimentica che il prezzo per esso era la schiavitù.
Moshé ricorre un’altra volta a Dio. Dio gli dice di usare la parola come strumento per far scaturire l’acqua da una roccia. Moshé non si attiene alle indicazioni ricevute. Non ci è chiaro perché lo faccia, però, invece di parlare alla roccia la colpisce per ben due volte. Dio giudica l’azione di Moshé come una profanazione: “non ebbero fede in me per santificarmi di fronte gli occhi dei figli di Israele…” e condanna Moshé ad un castigo terribile. Moshé, colui che fece uscire il popolo dalla schiavitù, che sognò e fece sognare la terra di Israele, non potrà entrarvi, dovrà morire senza vederla per non aver permesso che il flusso improvviso dell’acqua fosse un atto di santificazione di Dio ed un atto di fede.
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Parashat Chukkat – Purità
Nella parasha’ di questa settimana affrontiamo la difficile mitzva’ della vacca rossa, l’animale le cui ceneri sarebbero servite per purificare coloro che si sarebbero trovati in un stato rituale di impurità per motivi diversi tra i quali il lutto per un parente prossimo. I nostri maestri, codificando le mitzvot in mishpatim, precetti la cui logica può essere comprese e chukkim, precetti dogmatici di difficile se non impossibile comprensione, indicano questa mitzva come il chok per eccellenza. Se quindi è difficile comprendere il precetto della vacca rossa nelle sua essenza, diviene ancora più difficile comprendere il meccanismo per il quale colui che purifica diventa impuro e colui che è purificato diventa ovviamente puro. Come è possibile che uno stesso rito renda puri ed impuri allo stesso tempo? Come è possibile che si trasmetta uno stato di impurità a chi non sta vivendo quella stessa realtà di lutto? Il passaggio tra le due diverse condizioni halachiche andrebbe cercato nel senso del rito e dell’impegno per la purificazione e quindi l’elevazione dell’altro. L’insegnamento del rito della vacca rossa trascende lo stesso rito e ci insegna che per educare, per trasmettere un messaggio, per far crescere la consapevolezza ebraica di un qualsiasi gruppo o una qualsiasi persona bisogna “rendersi impuri”, bisogna scendere ad un livello più basso per poter risalire insieme, bisogna andare incontro all’altro nel luogo impuro nel quale egli vive, comprendendo la sua realtà ed elevandola. Puro ed impuro non sono categorie morali, sono status tecnici che vanno affrontati nel loro tecnicismo perché ebraicamente non è mai esistita una connotazione etica rispetto a condizioni tecniche di ritualità ed in nome di questo bisogna saper trasmettere un messaggio di crescita e miglioramento educativo.